Un mondo parallelo (A. Monferini)
Nell’affollato panorama artistico delle ultime generazioni sempre più pesantemente investite da un’aspirazione globalizzante che sfocia nell’omologo e rende ogni espressione conforme agli stereotipi dettati dalla moda, Sandro Sanna costituisce una rara e singolare eccezione, un caso, potremmo dire, contro corrente.
Dalla Sardegna, sua terra di nascita, arriva a Roma nel ’64, nel colmo di una stagione artistica particolarmente effervescente e densa di novità. Ma Sanna, nato nel ’50, appartiene a una generazione già molto distante da quel vitalismo giocoso e ottimista che caratterizza i primi anni Sessanta romani, anni in cui le figure emergenti sono gli Schifano, i Festa, i Ceroli e i Pascali.
La sua formazione si compie tra il ’68 e il ’77, proprio nel decennio segnato dalla rabbiosa esplosione della protesta giovanile, una protesta rivolta in primo luogo alla nozione di cultura, coinvolgendo le istituzioni che dovrebbero produrla: la scuola e le università. Sanna in questo periodo, oltre a dipingere insegna e si trova in pieno contatto con questo mondo.
Al ’79 risale la sua prima personale dove i lavori in mostra già presentano i primi segnali di quella autonomia di visione che è il segno distintivo della sua pittura. Sono anni difficili, di profondo disagio, che portano alla sistematica revisione di tutti i valori costituiti e alla tuttavia insoddisfatta ricerca di nuovi punti di riferimento culturali ed esistenziali. In questo clima, Sanna elabora il proprio progetto di “realtà” alternativa, aperta anche al virtuale e al cibernetico.
Amabile e di natura riservata, ma socievole, vive circondato dalla stima e dall’affetto di molti amici, artisti e pittori. Ma per quanto riguarda la ricerca Sanna resta un impareggiabile solitario che difende la propria autonomia in un isolamento denso di concentrazione.
C’è chi ha parlato della sua pittura come di una scelta “agra, povera, spoglia”. La notazione ha un suo innegabile fondo di verità; è, infatti, una pittura che rifugge da ogni tipo di lusinga; non insegue la piacevolezza sensuale del colore, né l’eleganza di una forma fine a se stessa, né tanto meno cede a facili ammiccamenti alle attuali poetiche deliberatamente leggere e disimpegnate.
Al contrario, per Sanna l’arte conserva ancora oggi una eminente finalità etica e conoscitiva. Nella sua visione la pittura è forse anzi l’unico dei saperi in grado di sollecitare una riflessione profonda sull’esistente. La forza allusiva dell’immagine coniugata a un equivalente formale che ne esalti e ne amplifichi il messaggio, è il solo strumento in grado di segnalare una via d’uscita dal profondo smarrimento che si è insinuato nel mondo contemporaneo. È questo infatti uno smarrimento che, paradossalmente, l’incalzante progresso delle acquisizioni scientifiche ha in qualche modo acuito, rivelando l’invalicabile limite della conoscenza umana dinanzi all’oscura natura delle cose. Gli antichi e ricorrenti interrogativi sono pur sempre rimasti senza risposta e la realtà del mondo appare più impenetrabile di quando antiche filosofie ne tentavano ingenue, ma all’epoca plausibili, spiegazioni.
L’esperienza ci ha comunque insegnato che la natura delle cose è altra da quella che ci appare e che in ogni tratto o elemento coesistono molteplici aspetti e verità che ne costituiscono la ricchezza e la complessità, anche dei significati.
L’inedito immaginario che l’artista mette in gioco si configura così come un vasto e organico progetto, ma suddiviso in una serie di temi iconografici, dove la distanza dei soggetti è solo apparente. Queste austere scenografie sono infatti i diversi sembianti con cui l’artista ripropone sempre lo stesso tema che è alla radice della sua visione, ovvero quello della natura inafferrabile e oscura del mondo, fonte inesauribile di uno spettacolo sempre nuovo e sorprendente.
Le Pietre che si stagliano su cupi fondali e offrono alla luce il proprio corpo scheggiato sono strumenti litici appartenenti alla civiltà protostorica; ma il punto di vista ravvicinato ne ha ingigantito la struttura trasformandole in presenze incombenti che affiorano dal magma indistinto del tempo, come ridestate da un lungo sonno.
Alla serie delle Pietre si ricollegano i Geodi, concrezioni di cristalli lucenti che con le loro aguzze lame dorate emergono dal grembo di un’ignota matrice, disponendosi in incastri di ardite volumetrie sulla dialettica combinazione di luce e ombra, di oro e di nero: bagliori incandescenti si sprigionano in traiettorie guizzanti e tagliano come fendenti l’oscurità indistinta del campo visivo.
L’una e l’altra serie si richiamano al nucleo centrale della poetica di Sanna e investono il tema dell’inafferrabile enigma della vita e degli oscuri fenomeni che ne segnalano l’origine. Nella monolitica volumetria delle Pietre si allude all’elemento primordiale e inquietante; i Geodi richiamano invece l’aspetto dinamico del divenire ed evocano la misteriosa energia che permea il creato.
La violenta contrapposizione di queste schegge di luce, che in ritmi sempre più accelerati rimbalzano sulla massa inerte e cupa del fondo, costituisce un ulteriore passaggio compositivo verso aggregazioni di forme più complesse: composizioni che assumono una fisionomia sempre più robustamente plastica dando luogo a un singolare effetto di tutto tondo. Sono queste le recentissime Forme plastiche e Meteore.
Maglie e derive, Muri d’acqua si intitola un’ulteriore serie di lavori imperniata su un altro elemento primario ed essenziale della vita: l’acqua, materia dalla forma indeterminata. Sono grandi composizioni quasi monocrome, intonate su un azzurro-grigio orchestrato da impercettibili frequenze luminose che fanno vibrare la superficie. Su questi schermi di gran formato una griglia fitta e serrata di filamenti ondulati suggerisce il flusso ininterrotto dell’elemento liquido che scorre su una parete. La composizione si sottrae alle regole dello spazio tradizionale; è un campo illimite e indeterminato, senza punti di riferimento intorno a cui organizzarsi. L’immagine si presenta come un evento aperto e in atto, dotato di un flusso continuo.
Ma l’opera che raggiunge il massimo grado di allusività e di suggestiva indeterminazione del soggetto è quella intitolata a Bisanzio: tre grandi superfici impaginate l’una accanto all’altra a formare un trittico. Su fondali bui che trascolorano dal grigio scuro al quasi nero, sono disseminati corpuscoli dorati a rilievo come tessere musive. Nel riquadro centrale le minuscole tessere sono disposte a intervalli regolari a formare una ordinata punteggiatura luminosa. Nei due riquadri laterali l’ordito puntiforme viene invece sconvolto come per effetto di una improvvisa folata che trascina i corpuscoli verso il basso, ammassandoli in un agglomerato denso ed eterogeneo.
Lo stato di quiete, di ordine e di stabilità del riquadro centrale si è così trasformato nel suo opposto: campi in balia di forze magnetiche che esercitano irresistibili attrazioni. Sprazzi di luminosità radente lasciano intravedere nelle brevi scie e nelle ombre i segni dello spostamento dei corpuscoli nella loro arrendevole corsa verso il misterioso polo d’attrazione. Dalle superfici si sprigionano tensioni segnalate da rapidi flash di luce, come lampi nella tempesta; o invece, a tratti, l’oscurità del fondale si incupisce in ombre più dense.
Sarebbe inutile, credo, lo sforzo di ravvisare in queste affascinanti ed enigmatiche scenografie qualche elemento riconducibile a una precisa esperienza e tanto meno iconografia. Possono indifferentemente rimandare a una mappa dell’universo e alle forze ignote che ne determinano il moto; o viceversa, a fotografie ingigantite di esperimenti sui corpuscoli della materia e sulla loro forza di attrazione.
L’artista ha voluto non solo rompere definitivamente i ponti con l’osservazione della realtà conosciuta, ma anche abbandonare ogni valore espressivo già sperimentato. Ha coniato un nuovo glossario della immaginazione costruendo un mondo fantastico alternativo, sottratto alla gerarchia dei segni e dei linguaggi correnti.
In questa ricerca solitaria e radicale di un nuovo stile e di una nuova percezione si avvertono infatti il bisogno di fare tabula rasa del passato e il tentativo di riformulare un “altrove” fantastico più atto a registrare le esperienze, i sogni, le aspirazioni di una generazione, quale è quella cui egli appartiene, che è cresciuta davanti al televisore e che al bombardamento continuo delle immagini ha risposto sviluppando una percezione più acuta. È la generazione che vive la prima mutazione informatica e al tempo stesso vede profilarsi un orizzonte senza molte speranze né prospettive sicure.
La pittura per Sanna può assumere così il ruolo di un mondo parallelo a quello reale che sappia esprimere il nuovo ancora indeterminato che il futuro prepara.
“L’uomo contemporaneo – ha scritto Umberto Eco riportando il pensiero di Marshall McLuhan – immerso in una rete di messaggi visivi e auditivi che lo assalgono da tutti i lati rivive come una specie di villaggio primitivo tutto l’universo che gli è di fronte sotto specie di notizia, e di tutto questo universo egli diventa responsabile. L’era delle comunicazioni di massa non sarebbe solo quella della dissipazione, ma al tempo stesso quella della concentrazione. Da questa situazione due sono i comportamenti che derivano: alcuni non riuscendo a decifrare il teatro del mondo, chiudono i loro occhi di fronte al caos; altri sanno leggerlo ed elaborano una loro risposta”. Quest’ultimo sembra essere il caso di Sanna.
Augusta Monferini
già Direttore della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma