Bisanzio (L. Meneghelli)

(In Sandro Sanna “Bisanzio” – catalogo mostra personale, Galleria Giulia, Roma 1994).

Oltre il rigorismo teorico: oltre l’ostentazione tautologica dei dati elementari del dipingere (colore, segno, superficie): oltre il fare pittura per studiare la pittura. Eppure ancora minime eccitazioni di sguardo, sintomi albali d’immagine, “understatement” espressivo. Superficie e profondità tenute strette da “chiodi d’oro”: ma senza ammiccamenti mondani (di cristalli ctoni o di ritmi siderei), semplicemente localizzazione di una datità spazi aIe, sporgenze (o rientranze?) che appuntano l’andirivieni di una materia notturna, che si ritrae e si espande in termini infiniti di diastole e di sistole (1).

Punti, ma con confini, che sarebbero pronuncia di misura, di orizzonte, di spazio spezzato. Il quadro di Sanna invece si pretende orizzonte “tout court”: aperto, senza esaurimenti: anche se non da completare come una mappa celeste (alla maniera di Luciano Fabro: un io che calcola le distanze proporzionali tra le stelle, cercando il proprio habitat nell’universo: davanti, dietro, destra, sinistra), ma orizzonte da inseguire nel suo ambiguo irradiarsi. Ambiguo, non solo perché sottomesso all’ordine della dinamica (di una oscurità fitta, diffusa ubiqua), ma anche perché lavorato da soffi (vele, voli) di fisiologica chiarità che osano spessore, corpo, volume: e dunque proposta di racconto, accenno di formalità.

Ma il problema non è di vero (di referenza), quanto di negazione del vero: è questione di materie che colpiscono altre materie, sino ad estenuarsi, a velarsi a vicenda: o, se si vuole, questione di un loro incessante definirsi e ridefinirsi, di un loro interagire che fa della superficie uno spazio del divenire, un luogo della indeterminazione pura. Esso perciò vale non per ciò che offre (afferma), ma per ciò che lascia intravedere. Verbo di Merleau-Ponty: “ogni pittura apre un campo di visibilità che la oltrepassa” (2). E anche in Sanna ogni superficie conduce oltre se stessa. È un fatto fisico che si propone come metafisico. È una presenza che insinua ipotesi di assenza. Tutto è lì e contemporaneamente altrove. Arte di quel che passa e di quel che è passato. Processo, catena avvertita di atti, che lascia tracce e copertura di tracce. Spazio plurimo (stratificato) che ha un suo tempo interno, un suo incessante ritorno (avvolgimento) su se stesso, ma senza il conseguimento· di una autentica fine (di una stasi reale). Spazio della speranza differita, pari a quella di Cézanne, che vede infinitamente sfuggirgli il motivo e infinitamente ci torna sopra, anche se alla fine rende tangibile solo la sua perdita, l’acquoreità di Le Cabanon. Come dire che, qui, la voglia di insistere, diradicarsi (passando, affollando, cancellando) non porta ad arresti visivi (ai terribili limiti che adescano e folgorano l’occhio), ma a una sorta di vastità, di illimitatezza, di atopìa. Perché i segni non moltiplicano mai i significati (le denotazioni): casomai moltiplicano proprio i segni e allontanano i significati. E se in molti lavori passati di Sanna la superficie sembrava quasi mettere la propria anima a nudo, facendosi attraversare da fendenti di luce, svelando la notte stessa del fare, ora i centri luminosi si sono fatti minimi, tra l’idea di borchia (di “puctum” esteriore) e l’idea di foro (di intimo pertugio). Se là i tasselli cromatici venivano come sradicati dal loro fondo e ondeggiavano in superficie simili ad iceberg alla deriva, qui le tessere dorate (musi ve) pongono in essere una paradossale situazione: da una parte sono battiti di continuo rigenero, elenco, oracolo, punti mobili (alla Castellani) che appartengono a se stessi e all’impeto che li inclina tutti, dall’altra sono sprofondi leggeri, spogli, rudimentali con un senso di pausa, di vuoto materiato. Sorta, quindi, di “dinamismo statico”, incredibile muoversi fermo, muoversi su di sé, riassumersi in nucleo di energia luminosa. “Elan vital” e “durée” bergsoniani, contratti in un unico segnale, che necessariamente turba, trema, incanta come lo possono fare le “sommarie” attestazioni di precipizio di Fontana. È pur vero che nell’ artista italo-argentino si tratta di un “gesto senza riparo, di zelo, illusione, destrezza, amore della vita nel vuoto che la stringe” (3): ma anche in Sanna si dà una sorte di attentato azzardato, per cogliere stupori attimali, tranelli “puntuali” che rendono precaria (e dunque viva, emozionata, “sragionante”) l’intera superficie immaginati va.

Del resto è sempre stato uno degli obiettivi di Sanna, quello di creare un quadro dell’irrequietezza, dell’instabilità percettiva: un quadro che assume una diversa configurazione a seconda del mutare dell’incidenza luminosa o dei punti di vista da cui è osservato. Ma se un tempo era il lavoro interno all’opera a espletare (quasi didatticamente) questo compito, attraverso una materia che si apriva dal profondo, o meglio che apri va il suo profondo, permettendo che la luce non solo si facesse largo, ma diventasse il largo (il varco) tra le cose, nelle ultime opere i minuti puntigli fanno soltanto “rabbrividire”, agitare epidermicamente il dipinto, ma non lo slogano, non lo destrutturarono. Eppure proprio queste tracce dall’ esiguo ingombro rendono illimite il campo, lo fanno senza fissa dimora: ma senza strappi, senza gesti giganti, senza segnali in immersione/emersione, semplicemente dichiarandosi per quello che sono: ori e fondi, luci, nient’ altro che luci, polveri di luce che bucano/resuscitano nel buio, nient’ altro che nel buio. Un costringersi, radunarsi, sommergersi e farsi germe (origine, Oriente) al vedere: incidenti infinitesimali per un massimo di alterazione percettiva.

Luigi Meneghelli

 

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