Realtà di luce nello spazio immateriale (F. Briguglio)
(In Sandro Sanna – Catalogo mostra a cura di F. Briguglio, Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea, Università degli Studi La Sapienza, Roma 1997-98).
È nell’ambito della pura astrazione, al di fuori delle più immediate contingenze, che la ricerca linguistica di Sandro Sanna, fondata essenzialmente sul valore formante della luce, compie i suoi attraversamenti espressivi.
Un percorso in cui sono rintracciabili riferimenti più o meno espliciti che vanno da Cézanne al cubismo, dalla metafisica al surrealismo, fino ad arrivare alle forme più intransigenti e radicali di indagini pittoriche esercitate, talvolta anche in termini oggettuali, nella più assoluta autonomia rispetto alla figurazione.
Mediante la pratica del distacco dalla realtà la dimensione poetica del lavoro persegue il raggiungimento della coscienza di una contemporaneità metastorica, giocata sull’ atemporalità delle pulsazioni emotive, da intendersi quali condizioni primarie per il superamento degli automatismi e degli schematismi della conoscenza.
L’assottigliamento dei confini tra illusione e realtà avviene così attraverso l’ambigua allusività di un linguaggio in cui il tema della luce, totalmente svincolato da ogni formula di restituzione empirica, si sviluppa e si risolve tutto all’interno dell’ opera.
Con l’assoluto rigore e l’esattezza delle sue raffinate dinamiche compositive, l’autonoma complessità della superficie rifugge in tal modo da ogni possibile compromesso con una fascinazione indotta da fattori esterni alla pura pittura.
Nelle opere di Sanna, le aspirazioni plastiche della pittura tendono semmai ad instaurare con la dichiarata tridimensionalità delle immagini una sorta di rapporto platonico.
Il necessario riferimento agli stati potenziali dell’immateriale impedisce infatti il ricorso alla fisicità scultorea, dove volume e materia, seppure esperibili secondo canoni slegati dalle modalità di una fruizione convenzionale, sono forme dirette di coinvolgimento dello spazio-ambiente, condizioni esplicite di sollecitazione sensoriale in cui permane l’idea di un contatto immediato con la realtà circostante.
Le pietre del 1993, appaiono come figure immerse in uno stato di totale isolamento.
La dimensione che abitano è quella dell’ assenza assoluta, un luogo privo di punti di riferimento e di coordinate visive che possano porre l’immagine in una condizione di equilibrio stabile rispetto alla realtà.
Come menhir eretti nell’indecifrabile dimensione del buio, perentori età, sono presenze affascinanti e insieme inquietanti, contengono in sé la memoria di un indefinito trascorso e assorbono le modificazioni di ogni istante del divenire presente senza che la loro forma riveli la minima variazione: sono il mito perenne, la loro anima è il tempo.
Anche in elaborazioni estremamente recenti come Geode, Voluminosa e Risuona l’aria, che del ciclo delle pietre costituiscono la naturale evoluzione, luce e forma si trovano a coincidere in un unico agglomerato di con la loro imperturbabilità e monolitica
materia impalpabile e riflettente, ma è qui un’ astrazione più radicale a svelare il segreto di un’ esistenza remota, passata o futura.
Così la materia litica si estenua, si contrae e si piega, si sfalda e si organizza in vortici di luce e di ombra, dove l’ostilità della pietra perde le certezze della massa e del peso per acquistare la leggerezza di volumi d’aria.
Nel ciclo parallelo dei muri d’acqua la sensibile fluidità della superficie è sollecitata invece da infinite minime variazioni di intensità luminosa che la percorrono creando l’illusione di un ritmo uniforme.
L’artificio si produce nella frammentazione e successiva ricomposizione dell’immagine, nell’ alterazione della frequenza di un moto oscillatorio che attraversa e struttura la totalità del campo visivo. Deriva e Maglie e derive esprimono in tal modo la metafora di uno spostamento laterale della pittura, di un cambiamento di rotta che trascina il senso oltre le delimitazioni logiche dell’ appartenenza e dell’ apparenza.
Nel polittico A prova d’acqua è d’altro canto lo stesso titolo a collocare, non senza una punta di ironia, l’esistenza dell’immagine in una condizione mediana tra l’essere della pittura e l’apparire della rappresentazione.
Tra le opposte polarità espressive della pietra e dell’ acqua, l’inserimento di due grandi tele del 1994 – Bisanzio e Vénto di polline – assume un valore particolare, rendendo progressivo il passaggio dallo stato solido allo stato fluido dell’illusione pittorica.
Quali nuclei primari di energia trascendente, esaltati dall’incidenza dell’ombra, affioramenti puntiformi di corpi luminescenti scavalcano la soglia del buio e pervadono la superficie di forza vitale. Incastonati in un fondo appena sommosso dall’ azione del vento, questi corpi si alternano a sporadiche voragini di vuoto, tasselli d’assenza che perforano idealmente il campo visivo.
Come nei primi Concetti spaziali di Fontana, gli scarti tridimensionali avvengono al di qua e al di là della tela.
Ma, mentre in Fontana lo sfondamento è reale, qui l’idea di apertura appartiene ad un ordine fenomenico intrinseco alla pittura.
In queste opere il piano è sempre considerato quale punto di partenza e punto di approdo per un’ allusività che lo attraversa ortogonalmente, che ne oltrepassa i limiti dello stato di precaria fisicità per determinare aggetti e profondità di spazio.
La luce vivifica l’immagine e oggettiva l’immaginazione, è il tramite per il disvelamento di tensioni plastiche restituite dalla superficie come una condizione implicita alla propria disponibile natura. È dunque la luce che definisce la dura pietra così come l’acqua, l’impenetrabilità o la fluidità della materia, la stasi assoluta e perenne o il movimento ritmico.
La sua essenza è tanto più artificiale quanto più riesce ad approssimare la visione alla condizione-limite di plausibilità e verosimiglianza.
I paesaggi di Sanna sono in tal senso luoghi ipotetici, spazi metafisici autonomamente determinati, alle dinamiche dei quali l’uomo può partecipare solo emotivamente, spiazzato dall’instabilità di una percezione stimolata e contemporaneamente tradita dall’ ambiguità delle immagini.
Il contesto, inteso come luogo concettualmente estensibile in cui le condensazioni luminose si concentrano e acquistano virtuale fisicità, è sempre invariabilmente indeterminato.
Tuttavia, mentre nelle pietre la figura, che quasi satura il campo visivo, è circondata da una porzione residuale di superficie che idealmente la isola dalla realtà esterna, in Bisanzio la scansione ordinata di minute tessere d’oro, immerse nell’ atmosfera rarefatta di un territorio desertico, fa sÌ che accadere e luogo dell’ accadere coincidano in un unico frammento che appare come ritagliato da una estensione illimitata di spazio.
Il concetto si estremizza poi nei muri d’acqua dove il contesto, proiettato al di fuori del perimetro dell’ opera, diviene avvertibile solo come presenza implicita, come elemento estraneo alla stessa pittura che, dall’ esterno del campo visivo, imprime alla superficie il movimento ritmico e ne determina le variazioni.
Il rapporto instabile tra interno ed esterno, tra il dentro e il fuori dell’ opera, proietta l’immagine oltre il concetto di scala per condurla ad una condizione di pura visibilità.
Le figure possono irrompere nello spazio reale come presenze incombenti, proiettate immediatamente a ridosso dello spettatore, o apparire come osservate da un punto indefinitamente lontano. Ma l’effettiva consistenza delle figure si cela nell’ equilibrio della proporzione, in un rigoroso criterio di controllo del rapporto tra le singole parti.
Per questo le immagini, seppure definite con estrema precisione, sfuggono alla comprensione e appaiono come non più relazionabili ad alcun universo conosciuto.
Il gioco ambiguo delle distanze si perpetua allora senza restituire certezze, senza consentire all’ osservatore la benché minima possibilità di individuare un criterio che possa stabilire con rassicurante approssimazione il reale distacco tra sé e il luogo. Un luogo regolato da leggi metafisiche che non potrà mai essere abitato da chi non riesca a intuirne le ragioni più profonde.
Pur testimoniando un chiaro richiamo a immagini della memoria, gli elementi iconografici perdono allora ogni possibile riferimento con le leggi che ne decreterebbero l’appartenenza al territorio autodeterminato della natura.
Sanna riesce così a superare la distinzione filosofica tra forma intrinseca e forma estrinseca del mutamento, riassorbendola nella soluzione unica di una dialettica interna al proprio linguaggio.
In tal modo il parallelismo con gli elementi della natura viene ricondotto nei termini di un ambito di ricerca squisitamente concettuale, di un rapporto di virtuale specularità tra la realtà e il verosimile.
Specularità che è pure messa in gioco nell’ accostamento dei due motivi portanti della mostra ¸l’acqua e la pietra – che interagiscono a distanza in un serrato gioco di rimandi.
La porzione di spazio fisico che accoglie e separa i due termini estremi di un unico linguaggio, diviene così abitabile secondo i parametri liberi dell’ irrealtà.
Un’irrealtà praticabile, appunto, come luogo delle emozioni estraniato dalla scansione lineare del tempo.