L’astrazione simulata (M. Meneghuzzo)

(In Sandro Sanna “Universi vibranti”– catalogo Cortina Arte edizioni, Milano 2013).

Un percorso interno all’arte del XX secolo, di portata essenziale, ha condotto il linguaggio dell’arte sulle soglie della vita, obbedendo a quel processo apparentemente irreversibile di svelamento, di negazione di quel mimetismo, di quell’artificio che per molto tempo era stato invece il cuore del linguaggio dell’arte: che la rappresentazione lasciasse il passo alla “presentazione” della realtà era diventata la condizione indispensabile all’artista che volesse davvero incarnare la Modernità attraverso l’avanguardia. In questo senso, la pittura si era trovata davvero a mal partito, ma ne era uscita brillantemente da un lato dichiarando apertamente il suo ricorso al simbolo, dall’altro costruendo letteralmente il linguaggio nuovo dell’astrazione (che non a caso qualcuno avrebbe voluto chiamare “arte concreta”, Konkretekünst, in quanto non derivata da rappresentazione, ma da vera e propria creazione di forme prima non esistenti).

Tuttavia, il trionfo della Modernità – intesa come momento storico ben preciso, e non semplicemente come attualità – ha coinciso con le prime “crepe” nel suo grandioso progetto, messo in discussione proprio a partire dalla stanchezza e da una certa dose di accademismo presente in quelle soluzioni linguistiche, dopo oltre mezzo secolo di presenza esclusiva sulla scena.

Ma a un artista non è dato di scegliere il momento in cui vivere, e forse ancor meno è dato di scegliere le forme del linguaggio in cui intende esprimersi: le sente, e basta. Così, Sandro Sanna si è trovato ad essere artista astratto – perché è indubbio che questa sia la sua prima definizione, quella che si fornisce immediatamente a chi ne volesse sapere di più senza conoscerlo – al “crepuscolo dell’astrazione”, in quel periodo cioè in cui il linguaggio artistico della Modernità, per antonomasia, veniva per così dire “dismesso” di fronte a narrazioni che non ne riconoscevano più il carattere di novità, ma che anzi vedevano in questo il retaggio quasi insopportabile di quella tradizione moderna e modernista, soppiantata dalla leggerezza della postmodernità. Di qui, la difficile collocazione di Sanna all’interno delle nuove categorie espressive, la cui teorizzazione, almeno all’inizio, soffriva di quel manicheismo tipico delle idee rivoluzionarie al momento della loro prima affermazione: le sfumature non contano, la complessità è esautorata, ciò che conta è lo “schieramento” su questo e sull’altro fronte. E il solo fatto di essere astratto collocava Sanna in un campo ben identificato, quello della Modernità declinante. Di questo credo abbia molto sofferto…

Eppure, la pittura di Sanna è tutt’altro che allineata sul quell’ultimo baluardo della “tradizione del nuovo” che sarebbe l’astrazione – anzi, l’astrattismo – fiduciosa di un Malevic, di un Mondrian, di un Albers o, perché no, visto che si tratta di una situazione romana quella in cui matura Sanna dalla natia Sardegna, di un Dorazio: nella sua pittura, più ancora che nella sua scultura, Sanna insinua dubbi anche vigorosi su quella stagione dell’arte, ma cerca nel contempo di preservarne le residue potenzialità, che ovviamente reputa ancora presenti e in attesa di sviluppo. Insomma, gettare l’acqua sporca ma non il bambino.

Le ragioni teoriche e formali su cui agisce in tal senso (e non necessariamente in quest’ordine, dalla teoria alla prassi, ma anche viceversa) riguardano infatti quelli che all’inizio dell’avventura astrattista erano considerati degli “assoluti” incontrovertibili, attaccati i quali sarebbe venuta meno tutta la teoria dell’astrazione, vale a dire quel concetto di dissimulazione della realtà e di costruzione di forme non referentisi se non a se stesse. E’ possibile che l’astrazione rappresenti o, ancor meglio, è possibile rappresentare l’astrazione? Mi pare che Sanna indaghi proprio questo e, a ben vedere, non è il solo a farlo (in certi casi, come questo, è meglio non essere da soli: l’unione fa la forza o, almeno, si fa notare): mi pare ad esempio che anche un artista come Marco Tirelli si trovi sulla stessa lunghezza d’onda, forse non estranea a un dibattito sotterraneo sulla pittura avvenuto, soprattutto attraverso le opere piuttosto che a parole, a Roma nell’ultimo decennio del secolo.

Sanna dunque non ha paura di “rappresentare”, pur da una posizione astratta. Addirittura di “simulare”. Certe sue opere non possono non richiamare se non proprio degli oggetti certo una tridimensionalità mimetica lontanissima da quei “fondamentali” dell’astrazione: in un’intera serie di lavori già degli anni Duemila ci sono vere e proprie “ombre” dipinte, che rendono tridimensionali quei punti che altrimenti sarebbero delle piccole superfici dipinte e “ortodosse”, ma questo livello di voluta simulazione, di rappresentazione dell’astrazione e delle proprie possibili contraddizioni interne si ritrova in tutte le sue opere degli ultimi vent’anni, a cominciare da quelle “pieghe”, da quelle “torsioni”, da quelle “profondità prospettiche” immediatamente precedenti questo ciclo. In quei lavori, argento e oro, è la simulazione della luce a creare l’effetto della piega metallica (a proposito, c’entra qualcosa una certa stagione della pittura di Corrado Cagli?…) o della torsione, mentre è lo scalare delle dimensioni di certi moduli quadrangolari a restituire quell’effetto di profondità che solo fino a qualche decennio fa lo avrebbe fatto espellere dalla categoria degli artisti astratti. In questo suo essere “eretico” rispetto all’ortodossia astratta Sanna non si fa mancare nulla, neppure il virtuosismo del lume, quell’artificio della luce radente che appartiene al bagaglio della tradizione pittorica antica, a sua volta scalzata da un’altra forma espressiva diventata ben presto tradizione anch’essa. A questo punto, forse, Sanna viene “assolto” dalla partecipazione attiva alla difesa della Modernità, e accolto tra le schiere della contemporaneità, per quanto ancora sub iudice, vista la sua tendenza a una trasgressione dolce, troppo dolce a volte per poter essere riconosciuta al primo sguardo.

Ma in fondo, di fronte alle sue opere (a tutte le opere d’arte, per la verità), cosa ce ne importa?