Cosmogonia 2001 (A. Monferini)

(In Sandro Sanna “Cosmogonia”– catalogo mostra personale, d’AC, Ciampino 2001).

Cosmogonia 2001, così è stata battezzata dall’autore l’imponente installazione che domina la mostra e che si accompagna ad un gruppo di lavori precedenti, ma a quest’opera imparentati da figure e forme in stretto rapporto di contiguità poetica e immaginativa. Una serie di disegni ripercorrono poi il processo di maturazione dell’opera nei suoi passaggi essenziali.

Poderosa struttura, si allunga in parete per oltre cinque metri e si sviluppa in altezza per altri quattro e mezzo. E’ costruita a mosaico, coordinando settanta tele di cm. 50×60 ciascuna, distribuite su sette file di dieci. Ogni fila è leggermente spostata in avanti rispetto alla sottostante e, su ogni fila, le dieci tele sono disposte a scalare. Ne consegue una disposizione a gradini sfalsati, che crea un piccolo interstizio quadrato, di vuoto, all’incontro di ogni tela con quella che le è sopra, come con quella che le è sotto; lo spostamento degli allineamenti sviluppa complessivamente una forma dall’aspetto di losanga con due lati scivolanti.

Mentre le file orizzontali tendono a slittare verso il basso quasi a suggerire una lenta e inesorabile caduta, le sequenze in verticale registrano, nei loro profili, lo spostamento laterale. Questo doppio movimento imprime all’insieme un accenno di lenta rotazione su se stesso. Sospesa nello spazio come in bilico, la struttura dipana al proprio interno un ritmo continuamente riformatesi, di tempi e movimenti. La dimensione spazio-temporale, come scrive l’artista, si risolve “in un unico vortice, espressione simultanea di passato e presente”.

La superficie chiara e perpendicolare della parete a cui l’opera è agganciata funge da piano neutro e stabile, che consente di percepire l’entità dello sbandamento e, a tratti, lo scivolare verso uno spazio indefinito.

Altri virtuosismi entrano poi nel gioco delle stimolazioni percettive con cui Sanna arricchisce quel senso di animazione di cui la struttura è pervasa.  La trama delle forme squadrate, ordinata secondo un principio geometrico, si scompone per effetto di una luce mutevole e cangiante.

Nella zona superiore e lungo i margini, una luce morbida e calda avvolge i piani facendoli retrocedere in un’ombra profonda; a volte la superficie sembra protendersi, esponendo come a rilievo aguzze lamine abbaglianti. Altre volte, lucenti traiettorie tagliano gli spazi a metà orientandoli in direzioni contrarie.

La struttura è un tessuto vivo e pulsante. La luce è l’elemento primario del codice formale dell’artista, che ne assume la regia dosandone l’intensità: ora concede pause di quiete, ora accelera il ritmo con traiettorie come di impulso elettrico che si scaricano in fulminee esplosioni; ora imprime velocità alla forte tensione che pervade la struttura, ne sconvolge la tettonica con un ritmo singhiozzante e mutevole, o modifica di continuo i percorsi. Luminosità radenti che spiovono dall’alto o che sgusciano guizzanti tra le commessure delle tele, rompono l’ombra che annerisce la trama, liberandone il respiro.

Una zona di particolare eccitazione dinamica attraversa di sghembo la parte inferiore: è una sequenza in rapida successione di “geodi” che si rovesciano verso il basso come in una frenetica corsa. I corpi scheggiati puntano le loro creste acuminate irradiando bagliori; i loro spigoli orientali in ogni direzione variano le ritmiche cadenze.

Nel glossario visionario di Sanna i “geodi” sono figure che l’artista da tempo propone, seppure in infinite varianti.  Sono elementi costitutivi del suo alfabeto figurativo in funzione di una segnaletica formale particolarmente intensa. In questo caso la fascia di “geodi” dai corpi gemmati ribadisce quel senso di caduta che la forma obliqua e periclitante della losanga già annunciava.

Più propriamente il “geode” è l’interprete attivo di una concezione della pittura che tende alla corporeità della scultura, ovvero il luogo nel quale la felice combinazione delle due arti restituisce loro la forza espressiva originaria.

La sfida paradossale di Sanna è quella di raggiungere questo risultato (ovvero dare corpo plastico alla pittura) servendosi non già di innesti di materia, bensì di quell’

elemento apparentemente immateriale ma formante che è la luce. In effetti se guardiamo al suo percorso, scopriamo con quanta ostinazione l’artista si è dedicato a elaborare forme che suggeriscano il peso, il profilo e la qualità plastica della materia, a partire dalle grandi Pietre totemiche.

Dando vita a una personale tendenza minimalista, Sanna opera poi una estrema riduzione del colore. Non solo ha bandito i colori che mimano la natura, ma si è spinto a conservare, del colore, i due soli elementi originari:  l’ombra e la luce, purgando drasticamente le variegate polivalenze del tono. Con una molteplicità di combinazioni dell’ombra e della luce Sanna costruisce il proprio universo. Dai neri profondi e abissali all’oro che diventa raggio mobile di luce.

Vi è nella sua pittura una filosofia della luce, come materia senza corpo che ad ogni cosa dona corpo e colore, materia-antimateria che pervade il tutto, luce come essenza che porta vita, calore e movimento: essenza in ultimo, divina:

Non si tratta in effettti, solo di una scelta formale, bensì dettata da una visione trascendentale e metafisica. E’ l’artista che mima l’atto stesso del creatore, mentre l’arte diventa lo strumento che disvela la vera essenza del mondo. Quella di Sanna, infatti, pur nel suo assetto astratto, non è pittura che non voglia “significare”:  ma in immagini altamente poetiche cerca risposte di segno ontologico alle grandi domande.

Lo stesso titolo, Cosmogonia 2001 conferma il suo orientamento meditativo, rivolto alla ricerca (mistica?) delle origini.

Di fronte a questi fondamentali, la stessa scienza è costretta ad ammettere il proprio fallimento, né potrebbe vantare maggiore attendibilità dell’intuizione artistica. Come ha scritto Nicola Abbagnano pronunciandosi sulle moderne teorie relative all’origine del mondo, si tratta di “postulati non verificabili né falsificabili” che “non possono essere tradotti in enunciati controllabili”. Le loro visioni si basano su idee “non meno metafisiche della incorruttibilità dei cieli di aristotelica memoria.”

Il buio in cui siamo immersi accende dunque legittimamente la fantasia di chi, come Sanna, si ponga dinanzi a temi di tale portata e centralità. Egli cerca di esorcizzare lo sgomento dell’ignoto mettendo in scena un mondo parallelo di forme e immagini irreali che tuttavia nella loro precisione e verità formale diventano concrete come un modello.

 

Augusta Monferini